Diana Debord

"Tell me and I'll forget"

I soggetti che vengono fermati negli scatti dell’autrice non hanno un riscontro nell’opaco e pesante mondo della materia, perché la loro sostanza si manifesta nell’immaginazione. Ripercorrendo la storia della fotografia, il rapporto dell’elemento irreale nel reale è stato oggetto di riflessioni sottili durante il periodo vittoriano. Questa estetica ha dato voce ad un aspetto poco discusso riguardo la bellezza femminile, in cui il fascino era esaltato nell’insinuarsi del valore ambiguo della visione. Questa rivelava un’inaspettata continuità tra le diverse dimensioni donna-fanciulla, oggi la stessa sensazione si ripresenta osservando i personaggi di Diana Debord. A differenza dei predecessori vittoriani, la sua attenzione si concentra sul soggetto e lo spazio attorno ad esso non assume particolare rilevanza, in quanto è la personalità di questi soggetti ad essere pregnante. Lo sguardo non è ostacolato da nessuna forma estranea al contesto, spesso all’interno dell’inquadratura linee immaginarie ci guidano, per dare risalto ad un dettaglio o al nodo concettuale dello scatto. Ma è proprio l’identità dei soggetti il vero campo d’azione da cui si diparte un groviglio di suggestioni indicibili. Il modo di rapportarsi al mondo concreto rivela la frammentaria condizione esistenziale dell’uomo moderno, preso dall’incessante rielaborazione della pluralità dei sistemi linguistici di riferimento. Per capire meglio, non solo avvertiamo una sofferenza nell’abbandonare la dimensione dell’infanzia, ma quello che lascia perplessi è cogliere il dominio del personaggio ritratto sull’osservatore. Il potere dello sguardo è suo, suo soltanto. L’entità, fermata sulla carta fotografica, non mostra la vera natura a cui appartiene, ma assume la forma che desidera al momento: ci troviamo davanti ad una rappresentazione del tutto inattesa, simile a quella del famigerato Mago di OZ. Questo aspetto è il riflesso dell’indole metamorfica della mente di Diana Debord, che infatti predilige l’elemento acquatico, il più instabile, il più complesso, il più trasformista dei quattro elementi. Non sono assenti gli influssi legati all’arte, che vengono restituiti in chiave personale e si soffermano soprattutto sulle poetiche romantiche, surrealiste e dei preraffaelliti. Nella serie intitolata “Vanitas”, i fiori che compaiono sono un perfetto raccordo con le declinazioni decadentiste che in essi hanno trovato una delle loro icone. Il contrasto vita-morte è palese nelle ibridazioni corpo-scheletro. La scelta di manipolare graficamente alcune tavole anatomiche non è casuale: manifesta la volontà di scarnificare il corpo per comprendere, nella maniera più scientifica possibile, il mistero della verità. La ricerca richiede sforzo e analisi ma la stessa è dentro di noi. Così il cerchio si chiude sempre sull’introspezione e sull’ascolto delle vibrazioni che provengono dalla nostra mente. 

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