Durante una delle sue
esposizioni, una donna contestò a Picasso l’incomprensibilità della lettura
dell’ opera, chiedendogli chiare spiegazioni. L’artista le domando:” Lei
capisce il cinese?”, la donna disse di
no e Picasso concluse rispondendole: “Allora lo studi…”. L’arte, nell’intenzione di Picasso, è da
considerarsi al pari di un linguaggio, quindi per capirlo bisogna appropriarsi
dei sui strumenti di lettura. Mai come oggi l’arte ha bisogno di essere
osservata, studiata e analizzata. Entrare in questo mondo significa abbandonare
i preconcetti, le rigide strutture mentali ed essere ricettivi quanto più
possibile. Allora infrangere la barriera del limite è possibile, come nel caso
di questi artisti. Facendo il calco di un’auto distrutta da un incidente o
riproducendo nei minimi dettagli il tronco di un albero, è possibile riprodurre l’anima o lo spirito
delle cose? Questa è la domanda che si è posta l’artista Charles Ray. Il salto
oltre il limite consiste nella non-creazione
dell’opera d’arte. Charles Ray non “inventa “ nulla, ripropone quello che già esiste al mondo.
Siamo di fronte ad un assurdo, un loop che manda in corto circuito un cardine
fondamentale dell’essere artista. Egli crea piuttosto un doppio, un’ ombra che
non vuole essere semplice simulacro, ma contenitore dell’essenza immortale che
racchiude. Infrange così l’ idea stessa di unicità, per approdare nella terra
dell’artificio, della finzione. Guardando l’opera Hinoki ,
ad esempio, (che significa cipresso in giapponese) non sappiamo di osservare
una perfetta riproduzione. Anche la tensione verso un’eventuale “clonazione”
dello spirito dell’oggetto è un tentativo di andare oltre, oltre le proprie
capacità umane, oltre la stessa morte. 100 milioni di dollari! E’ questo il
valore dell’opera For the love of God di
Damien Hirst, un teschio di platino ricoperto da ottomila diamanti. Oggi è
l’oggetto più caro apparso sul mercato dell’arte: creato da un artista vivente,
ma non è questo il limite varcato da Hirst. La sua intenzione è mettere al mondo
qualcosa che vada oltre il confine naturale della propria morte. L’uomo è
limite, ma con questa opera si assicura l’eterno: è il tempo della materia ad essere fatto in mille pezzi
dall’artista. La sua immagine, il sue essere, il suo vissuto aderiscono
perfettamente alla creazione come una seconda pelle. Un atto volontario di
immortalità, di esaltazione autoreferenziale, che può essere paragonata a quella delle piramidi d’Egitto, silenziose guardiane del
corpo del faraone o allo sfarzo voluttuoso e dorato della reggia di Versailles di Luigi XIV, o a quello più monumentale e severo dell’Escorial,
voluto da Filippo II. Tutti questi personaggi hanno scolpito nelle loro
grandiose opere il proprio volto per sempre e, visto il potere politico ed
economico di cui disponevano, potremmo
anche comprendere. Damien Hirst, ha ottenuto la medesima cosa, ma ricordiamoci che lui è “solamente” un artista!
La contemporaneità, con la velocità e la capacità di fagocitare immagini e
informazioni, è la causa della crescita smisurata dei personaggi di Ron Muek.
L’artista propone infatti sculture di proporzioni ciclopiche, simbolo dell’uomo moderno che ha perso il
senso e la misura delle cose. Si è rotto
il legame tra lui e la natura e, valicandone il limite, tutto si è deformato,
quasi fossimo entrati nel regno delle favole, sorprendendoci a chiacchierare con Alice o Gulliver… Manca la misura di
riferimento: l’ uomo vitruviano di Leonardo è per sempre cancellato, ed anche
il più vicino Modulor di Le Corbusier appare obsoleto. Si entra nella
dimensione dell’incontrollato, e l’uomo non è più “misura di tutte le cose”,
come l’ideale rinascimentale asseriva. Dell’uomo, quello di sempre, resta solamente lo sguardo: sorpreso, impaurito,
smarrito … E’ palese la contraddizione
in cui vive: da una parte egli è grande, ma è segnato da un
‘inequivocabile fragilità interiore, che si rivela nei suoi occhi, che continuano ad essere “specchio
dell’anima”. L’interesse mediatico e l‘onda di protesta sollevati da Guillermo Vargas, con l’opera Natividad, è sicuramente fra gli episodi
più clamorosi che ha investito l’arte negli ultimi anni. L’artista costaricano
sconvolge tutti esponendo nella “Galleria
Codice” di Managua un cane
randagio denutrito e malato. Legato ad una corda, tra le bianche e silenziose
mura dell’edificio, Natividad non
poteva essere nutrito. Ad una distanza da lui non raggiungibile c’era una
ciotola traboccante di cibo e dell’acqua. Le foto lo mostrano indebolirsi
progressivamente, fino alla morte. Guillermo Vargas mette sotto i riflettori Lei, la “nera
signora”, servita in prima visione di fronte agli occhi stupiti dei visitatori. Il suo gesto è di una forza prorompente,
bruta,volutamente cattiva: nessuna difesa psicologica può resistergli! Dice
l’artista: ” La cosa importante per me è sottolineare l’ipocrisia della gente: un animale diventa elemento di attenzione
quando viene posto in un luogo bianco, dove la gente va per vedere dell’arte e
non quando muore per strada”. Inutile sottolineare quanto sia stato, in questo
caso, infranto il limite… Per Matthew Barney è la novità del linguaggio ad
essere portavoce di una personalità che sicuramente è andata oltre al consueto. L’artista, con la sua prima
mostra a Los Angeles, viene a rompere e reinterpretare l’idea della performance. Barney, si fa riprendere mentre si ancora con ganci e imbragature al soffitto della
galleria. I nuovi strumenti di comunicazione sono presi in prestito dal mondo
dello sport estremo e dalla tecnologia. Il mix è fatto da ingredienti semplici
ma efficaci: culto del corpo, performance e manipolazione dell’identità.
L’artista è sempre stato caratterizzato da un forte istrionismo, che di volta
in volta lo porta sempre più in là nella scoperta e nell’evoluzione del sé. Aspettando quello che ancora può
accadere, restiamo ad osservarlo sospeso e immobile nella scultoreità classica
del suo corpo bianco e nudo.
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